Staipa’s Blog

Il Blog di Stefano Giolo, divulgazione informatica, uso consapevole tecnologia, e fatti miei

La mia prima volta (L’anima)

Tempo di lettura 12 minuti

<- La mia prima volta
<- La mia prima volta (La vita)

Ricordo la prima volta come se fosse appena accaduta. I suoi capelli erano mossi, castano chiari, ricordo che a far scattare il tutto fu un ricciolo sbarazzino sulla fronte, si staccava dal resto dei capelli per spingersi fiero verso il centro e risalire. Quel ricciolo aveva attratto la mia attenzione, sembrava richiedere tutta la mia attenzione, sembrava volere che la mia attenzione si concentrasse solo su di lui quasi ignorando il resto della figura che lo portava. Avevo tredici anni ed eravamo a scuola nell’aula magna, non ricordo esattamente per cosa fossimo lì perché la mia attenzione era rivolta altrove. Non avevo idea di chi fosse perché era in un altra classe ma quel ricciolo spavaldo era in qualche modo un simbolo nella mia testa, il simbolo che avrebbe scatenato tutto il resto. Ci avevo già provato in passato in maniera meno concentrata e motivata ma questa volta sarei arrivato fino in fondo anche se non lo sapevo ancora. Non ricordo quanto ci volle per sapere che il nome della ragazzina fosse Chiara e che fosse in terza B. Io se non ricordo male ero in F ma lei, ne sono certo, era in B. Di questo sono sicuro.
Dicono che la prima volta non si scordi mai. Io penso che siano le sensazioni provate a non essere scordate, l’atto in se purtroppo va perduto nei meandri della mente ricoperto dalla ripetizione ad libitum dell’atto stesso. Mi chiedo se lei invece abbia ancora memoria del risultato, visto che durante l’atto non era presente. Le scrissi la mia prima poesia a scuola, durante l’ora di inglese. Non ricordo le parole e mi chiedo se ci siano ancora nel suo diario di allora, se abbia ancora il diario di allora. Come in ogni prima volta però ricordo le emozioni provate. Non scrivevo realmente a lei, ma a quel riccio che ricordo ancora perfettamente più di quanto ricordi il suo viso, scrissi a me stesso mentre parlavo di quel riccio. Non partii con una classica ode a una donna ma con una specie di ode a dei capelli. D’altronde non conoscevo altro di lei.
Ricordo tutto il riempirsi dentro come di una bolla che si gonfia, come un liquido che sale dal basso fino ad allargarmi il torace, a silenziarmi la gola, ad entrarmi in testa e spingere forte. Le persone che mi stanno accanto l’hanno spesso interpretato come se volessi isolarmi ed entrassi in una forma tra autismo e depressione, ognuno ha sempre avuto il proprio modo di interpretarmi in quello stato ma per me è solamente parte del processo. Della mia dipendenza se vogliamo. Una delle tante dipendenze. Ricordo perfettamente la sensazione di estraneazione, di stacco dal mondo, di isolamento non tanto dagli altri quanto da me stesso. Il desiderio che spinge, un desiderio che non avevo idea di da dove venisse né cosa desiderasse né dove e come sfogarlo. Presi in mano la penna, una stilografica blu in plastica gialla tutta mangiucchiata e scrissi a quel riccio, che poi quello che scrivevo arrivasse a Chiara era un fattore secondario. Scrissi di getto ma non so cosa scrissi. Alla fine il mio corpo, la mia anima, la mia mente parvero svuotati. Tutto quel liquido accumulato dentro che schiacciava e premeva su ogni mio organo, pensiero, su ogni parte di ciò che ero allontanandomi da me stesso ed ovattando tutto, era scomparso. Era scomparso con una forma di piacere quasi fisico che avrei imparato più tardi ad assimilare all’orgasmo. Seppure non fosse la prima volta che usassi la vena creativa per scrivere questa fu la mia prima volta, quella in cui ne compresi il potere terapeutico. Pensai che sarebbe stata comunque l’ultima. Cosa mai avrebbe potuto nuovamente scatenarmi una simile sensazione? E cosa avrei potuto scrivere di altrettanto forte? E poi queste cose belle a forza di ripetersi perdono forza, perdono valore ed infine si abbandonano, no?
Ne scrissi altre due o tre credo, sempre al ricciolo di Chiara, consegnandole a Chiara perché il ricciolo potesse leggerle mentre le leggeva lei. Credo di averci fatto una passeggiata e ballato un lento e niente altro. Le promisi che un giorno le avrei fatto capire che per me non era solo un gioco, che non l’avrei dimenticata, e in qualche modo sto mantenendo la promessa anche ora anche se probabilmente non lo saprà mai. Anche se la promessa non era fatta a lei. Ho scritto molto anche sull’incavatura della sua schiena che ho toccato ballando quell’unico lento, Independent Love Song di Scarlet. Ma questo accadde più di quindici anni dopo e ha più a che vedere con il mio modo di scrivere e di pescare nei ricordi che con lei. Come tutto il resto d’altronde.
Scrissi dell’altro nell’anno successivo e probabilmente quello dopo ancora. Mi ero illuso che quella sensazione potesse tornare e mi convinsi che il problema fosse non tanto nello scrivere quanto nell’amare. Non ero in grado di provare quello che avevo provato per lei. Per il ricciolo praticamente. Fu quando incontrai il mio primo amore, amore vero, che mi accorsi che il mio scrivere aveva poco a che fare con il mio amare gli umani e che quando mi chiese “Ti è piaciuto?” risposi “Sì, è quasi come scrivere.”
Avevo ripreso a farlo da poco. I cambi, le rivoluzioni, le stranezze dell’adolescenza e degli ormoni stavano facendomi impazzire, ero un adolescente atipico in un mondo tipizzato, dovevo essere ciò che ero mascherandomi da metallaro, o da bravo ragazzo, o da musicista jazz, o da latin lover, o da timidino. Ero già consapevole di chi volevo essere ma la società non era in grado di accettare che lo fossi quindi dovevo raccontarmi a me stesso per avere la mia direzione. Scrivevo. Scrivevo sopratutto a me stesso. Scrivevo rinchiuso nella mia stanza. Quando tutto si riempiva di quel liquido soffocante che mi obbligava a farlo lo facevo e ogni volta mi dava piacere uscendo da me attraverso la penna. Ero praticamente rinchiuso in me, tra me, con me, all’interno di me. Iniziai a portarmi dietro un Moleskine, non perché lo avessero fatto Oscar Wilde o Ernest Hemingway ma semplicemente perché era comodo. Potevo scriverci per diminuire il liquido dentro e arrivare fino al momento in cui avrei potuto isolarmi e buttarlo fuori del tutto. Scrivevo sull’autobus, per strada, nei locali davanti ad una birra, nelle pause durante gli allenamenti. Scrivevo. Scrivevo delle cose che può scrivere un adolescente e di qualche altra. Non pensavo sarebbe durato a lungo. Finii di scrivere il mio primo libro nel giro di pochi mesi, era una raccolta di poesie, o quantomeno di pensieri. Aveva un inizio, uno svolgimento ed una conclusione come un romanzo, una storia organica e precisa di crescita. Pensavo non avrei mai più scritto altro. Conoscevo Rimbaud e mi piaceva l’idea di chiudere con la scrittura come aveva fatto lui, il poeta dell’adolescenza. Avevo scartato moltissime poesie che ritenevo buone, alcune ottime. Poesie sulla morte, sul senso della vita, sulle contraddizioni del mondo, poesie troppo sperimentali ma interessanti. Fu in quei giorni che tirai fuori dall’armadio il cappotto di pelle che avevo messo via la stagione precedente, infilandoci una mano in tasca ne trovai una pallina di carta. La aprii e dentro vi trovai scritto “Rievocazione dei sensi”, lo avevo scritto quasi un anno prima in una sera in cui avevo voglia di isolarmi dal mondo. I miei amici avevano preso l’autobus ed erano in centro ad aspettarmi, io avevo deciso di perdere l’autobus e di farmela a piedi anche se in venti minuti sarebbe arrivato il successivo. Attorno c’era nebbia, probabilmente era un novembre o un marzo, un giorno di mezza stagione. Camminavo come ho sempre amato fare nelle parti vietate della zona merci della stazione dei treni. Mi era venuta in mente solo quella frase, avevo una penna, un foglietto ma non il Moleskine. L’avevo scritta e messa in tasca. Poi tra una cosa e l’altra avevo finito per appallottolarla e ritrovarla mesi dopo. Fu una frase profetica e una rivelazione. Iniziò a prendere corpo quello che sarebbe stato il mio secondo libro iniziato, anche se ci misi anni a terminarlo, e fu probabilmente il mio quarto finito. Iniziò a prendere corpo Contrapposizioni, tra giochi e sperimentazioni e temi alternativi. Senza fretta. Senza volerlo realmente terminare era il coperchio sotto cui poteva stare molto del materiale che avevo scartato in precedenza. Ero convinto non lo avrei mai terminato, e avrei smesso preso di scrivere come Rimbaud, ma ero lontano dai diciannove anni.
Il secondo libro lo scrissi di botto, in poche settimane dopo aver chiuso con il primo amore ed averne incontrato un’altro fuggevole ma estremamente provante dal punto di vista personale. Una persona più strana di me, più complicata di me, più estrema di me con cui confrontarsi e chiedermi chi fossi fino al nostro esplodere in una favilla luminosa. Cominciavo a pensare che forse dopo tutto avrei potuto continuare a scrivere un altro po’. Ma presi una pausa. Così, perché amo contraddirmi.
Sembrava non esserci più nulla da scrivere, si era esaurito il filone e forse mi andava bene così. Scrissi un po’ usando la tecnica e non la passione, scrissi altri pezzi di Contrapposizioni fino quasi a completarlo riempiendolo di esperimenti, giochi di parole, tecnica talvolta fredda. Poi come per ogni droga, per ogni dipendenza, per ogni fuga incontrai qualcuno che mi diede una scossa, che mi lanciò nel baratro o me ne estrasse. Che mi fece capire cos’è la dipendenza. Che mi fece capire cos’è la depressione. Che mi fece capire cos’è la vita. La prima volta che capii come sarebbe andata a finire fu sul suo letto quando iniziò a leggermi Prevert. Non avevo mai letto Prevert. Parlammo ore di poesia, giorni, mesi. Mi accorsi di come le sperimentazioni che avessi provato non fossero davvero così inutili, leggendole lei mi mise in mano Pessoa. Non avevo mai letto Pessoa e fu una rivoluzione. Ricordai come all’inizio la spinta fossero le poesie di Edgar Poe ma capii come ambissi involontariamente, pur non conoscendolo a Pessoa. Ne lessi la prosa e capii che come il mondo fosse più ampio. Fu lei che mi portò a terminare Contrapposizioni, a spingermi fino a farmelo pubblicare. Oggi lo rileggo e nel suo piccolo lo trovo ancora rivoluzionario. Trovo che sia ancora la cosa più bella che io sia mai riuscito a creare. Può non piacere, è ovvio, ma la portata che ha per me, la profeticità dei contenuti per me sono come se il me giovane avesse scritto al me di oggi cose che potrà capire solo il me di domani. Di tutta la mia produzione è stato fino ad oggi l’apice. Scrissi in quel tempo anche un’altra raccolta di poesie, ed un’altra ancora. Dalla prima all’ultima, ad eccezione del solito Contrapposizioni, che prometto non nominerò più, sono stati un percorso collegato, da una fine all’inizio successivo, da una fine al successivo ed ancora. Ne scrissi cinque con pause più o meno lunghe. Il cammino di un adolescente che cercava di crescere, di superare le paure, di lanciarsi da una rupe convinto di poter volare, di cadere ed infine di riprendersi. Arrivai a schifarmi di quello che scrivevo. A non voler più quella fuga, avrei voluto qualcosa di più, di più forte. Ero dipendente ma l’assuefazione aveva fatto il suo corso dopo più di seicento pezzi scritti e catalogati. Qualunque cosa provassi a scrivere mi risultava vuota, già scritta, già vista, inutile. Cominciai a cercare emozioni di altro genere. Di molti altri generi. E poi ancora una volta incontrai l’amore. Un amore strano e complicato seppure semplice. All’epoca avevo spostato il mio scrivere alla creazione di questo blog. Ci scrivevo già da qualche anno a dire il vero e scriverlo era stato probabilmente il motore per far nascere questo nuovo amore che quietò apparentemente il mio bisogno. Si spense il blog, si spense tutto. Fu il motivo per cui smisi di scrivere. Nel bene e nel male.
Scrivere aveva preso a farmi schifo. Se provavo a scrivere e mi leggevo mi sentivo come un alcolizzato che si renda conto di essersi ubriacato contro il proprio volere l’ennesima volta. E tutto ciò che scrivevo mi dava il voltastomaco, era inutile, ripetitivo, vuoto. Il liquido che mi si formava dentro era stagnante e puzzolente. Si formava ma liberarlo dava prevalentemente olezzo. Ogni tanto pensavo a quel ricciolo di tanti anni prima, e mi dicevo che forse avevo finalmente raggiunto i diciannove anni di Rimbaud. Ne avevo trenta, ma era uguale. Non provavo più l’orgasmo dello scrivere ma sentivo ogni istante me stesso pieno di quel liquido che mi estraniava da me e dal mondo ma ero incapace di svuotarmene, privo del desiderio di svuotarmene. Mi stavo allontanando da tutto. Anestetizzato, arido, lontano. Poi l’amore finì, come era naturale che fosse, e con esso in qualche modo l’embargo che mi ero imposto. Non che fosse merito della fine dell’amore ma semplicemente fu un cambiamento abbastanza importante da impormi di riprendere in mano le cose.
Provai a scrivere nuovamente in poesia schifandomi ancora come sempre e allora decisi di scrivere un romanzo. Avevo scritto racconti negli anni, avevo provato a scrivere racconti lunghi ma non mi era mai riuscito di superare poche pagine. Decisi di scrivere un romanzo su di me, per me, da tenere per me. Una forma di auto analisi. Lo scrissi in pochi mesi, era breve e non saprei dire neppure quanto bene fosse scritto ma dopo essere stato mesi a scrivere rinchiuso in casa avevo ritrovato me stesso. Il desiderio, la voglia di buttare fuori tutto, il contatto con il mondo e la realtà. Ed avevo goduto un universo intero. L’anestesia non era terminata però. L’aridità. Il distacco dal mondo. L’incapacità di provare emozioni positive o negative che fossero. L’apatia. Trovai il modo di emulare le emozioni, di viverle apparentemente, di simularle, di stimolare i ricordi per indurle. Era scriverle, scriverne. Per evocarle, per esorcizzarle, per vivere. Non molto diverso da alcune droghe o dell’autolesionismo era diventato il mio modo di provare qualcosa, qualunque cosa fosse pur di sentire di essere in vita.
Quello è stato il momento in cui il blog è rinato con dodici gradi e con gli altri racconti che da allora mi accompagnano e hanno sostituito le sensazioni di cui un tempo avevo bisogno continuando ad alimentare la mia dipendenza e svuotare il mio dentro dal liquido che lo invade. Ho scritto un altro libro, di racconti da allora o meglio due libri concentrici. Il titolo del progetto nella mia testa era Anestesia ma sarebbe stato stupido fosse il titolo reale perché era costruito esattamente sul percorso e le sensazioni consce ed inconsce di un’anestesia totale, e dell’anestesia che stavo provando. Avrei rovinato al lettore (me stesso) il viaggio. Poi come sempre è quando hai bisogno di qualcosa di più forte che incontri qualcuno in grado di dartene. Ho incontrato la persona più importante degli ultimi anni per la mia dipendenza. Mi ha preso per mano e guardato negli occhi dicendo solo io credo in te. Se un giorno i frutti di quello che ho fatto in questi anni si vedranno il merito sarà più suo che di tutta la fatica fatta -che poi non è fatica- in questi anni. Mi ha guardato negli occhi mentre il liquido mi riempiva e isolava dal mondo e mi ha infilato nella pancia un coltello per aprire una breccia e farlo uscire. Il piacere che ne ho ricevuto, in ogni senso, in ogni modo è stato il più sconfinato e dura ancora ogni giorno anche se non ci credo. Ed ancora ogni volta mi sembra l’ultima. Costringendomi ad iscrivermi alla scuola palomar che avevo scoperto per caso mi ha messo davanti al fatto che era il momento di provare davvero a seguire un sogno. Ho scritto il mio primo romanzo completo, completo di ogni punto fondamentale. Migliorabile, sicuramente, ma ho superato il mio limite di non riuscire a scrivere più di un racconto lungo. Quel che ne sarà è da vedersi ma oggi scrivo ancora, mi riempio di quel liquido dal mondo e lo butto fuori. Scrivo su questo blog o altrove ed ogni singola volta mi sembra l’ultima. O la prima. Guardo ciò che ho scritto e mi chiedo come farà a venirmi in mente qualcosa di nuovo fino alla volta successiva ed ancora ed ancora ed ancora ed ancora. Non so quanto durerà. Se mi fermerò di nuovo infine, ma scrivo ancora ed è ancora tra tutte l’emozione più grande, il piacere più forte.
Creare mondi. O raccontare mondi che esistono davvero ma altrove, in luoghi che gli altri  non possono visitare ma tu sì.
Non so quanto durerà. Se mi fermerò di nuovo infine.
Non importa.

  • Post Scriptum: Solo dopo aver scritto tutto questo il caso mi ha portato ad un’intervista dello scrittore che stimo di più e che ha segnato maggiormente la mia fantasia. Cercavo su internet “Dipendenza da scrittura” per trovare un’immagine interessante da allegare e come a volte capita è piovuto qualcosa.


    Mi ricordo quando ero uno studente che scriveva storie e romanzi, alcuni dei quali furono poi pubblicati, altri no. Era come se la mia testa stesse per esplodere, talmente tante cose volevo scrivere in una volta. Avevo un sacco di idee, tutte intasate. Come se avessero bisogno di chiedere il permesso per uscire. C’era questa falda acquifera sotterranea di storie che volevo raccontare e dovevo solo conficcarvi una tubatura per far sì che tutto fiottasse fuori.

    I can remember as a college student writing stories and novels, some of which ended up getting published and some that didn’t. It was like my head was going to burst – there were so many things I wanted to write all at once. I had so many ideas, jammed up. It was like they just needed permission to come out. I had this huge aquifer underneath of stories that I wanted to tell and I stuck a pipe down in there and everything just gushed out. 

    Stephen King in un intervista a Rolling Stone.

La mia prima volta (Il sangue) ->

Disclaimer su racconti e poesie

Tutto ciò che leggi qui dentro è una libera rielaborazione di vissuti, sogni e immaginazioni. Non rispecchia necessariamente la mia realtà. Se chi legge presume di interpretare la mia vera persona, sbaglia. Se chi legge presume che tutto sia inventato, sbaglia parimenti. Se tu che leggi mi conosci, leggimi come leggeresti uno scrittore sconosciuto e non chiederti altro di diverso di ciò che chiederesti di questo.

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