Non li ho compiuti oggi trentacinque anni, è già passato qualche giorno.
Era un tempo del bilancio nella mia testa, di progetti di sogni, di desideri, di obbiettivi.
Sono falliti tutti. Dal primo all’ultimo.
Eppure sono felice.
In procinto di cambiare lavoro abbandonando un progetto che amo ancora durato quasi dieci anni, in procinto di proseguire sul mio grande sogno nonostante le mura alte che lo hanno circondato, in procinto di provarne un’altro più incredibile e assurdo, in continuo cambiamento.
In continuo cambiamento.
Oggi mi è ricapitata in mano, Itaca di Costantino Kavafis, o più precisamente mi è stata fatta ricapitare in mano, è curioso se penso quando e come ne sia venuto a contatto la prima volta. Era l’inizio della mia libertà, della mia vita in qualche modo adulta. La leggevo e sognavo che la mia vita sarebbe stata un viaggio incredibile e pieno di avventure, esperienze viaggi metaforici e non.
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Tag: Me stesso
Il grigio nel mezzo
“L’istanza di scarcerazione è andata a buon fine”
Me lo ha detto così, me lo ha detto. Senza nessun preambolo. Si è presentato al colloquio e mi ha detto che sarei presto uscito.
“Ma che cazzo dici?” risposi.
“Sì, insomma verrai rilasciato a breve”
“Ma perché? Non ti ho chiesto io di farlo che cazzo di avvocato sei se non fai quello che dico?”
“Cercare di farti allungare la pena? Allo stato delle cose non sarebbe neppure possibile, e poi è ridicolo io i miei clienti li devo difendere non incastrare peggio di quello che sono, che figura ci farei? Non troverai mai un avvocato disposto a lavorare per farti peggiorare volutamente la pena!”
“Non è possibile… sei un folle.”
“Vedrai che quando respirerai l’aria di fuori mi ringrazierai”.
Stava sorridendo.
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Perché ho smesso di scrivere poesie
Scrivevo molta più poesia un tempo.
Ho scritto sempre molto, ricordo il primo racconto che ho scritto era qualcosa come il 1990. avevo otto anni, forse nove. Raccontava di un viaggio nello spazio in cui io, nel 2017 andavo su Marte e incontravo una popolazione aliena, ma non era fantascienza, utilizzava il cliché inizio novecentesco della perdita di sensi momentanea a distinguere la parte reale da quella immaginaria, un trucco mutuato da Poe o da altri scrittori della sua epoca. Avevo descritto la morte da dentro il morente descrivendo una serie di deformazioni sensoriali e poi la sua resurrezione in questo mondo alieno. Non spiegavo se il protagonista fosse morto davvero o no, se fosse inteso come reale o no tutto quanto accadeva dopo. Avevo otto anni, era il mio primo racconto e non so dire da dove venisse, avevo letto Il Richiamo Della Foresta, 20.000 leghe sotto i mari, forse qualcosa di Salgari non di più.
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La paura di fallire
Fallire. Il mondo è zeppo di paura di fallire, di provare a fare qualcosa e non arrivarci in fondo. Fallire in uno sport in cui non sei sicuro di eccellere, fallire provando ad imparare a suonare uno strumento musicale, fallire un esame all’università, fallire la scelta degli studi, fallire in un rapporto di coppia, fallire un colloquio di lavoro, fallire l’organizzazione di un viaggio ambizioso, fallire un’attività lavorativa, fallire nello scrivere un libro, fallire nel dichiarare il proprio affetto, fallire nel coltivare un fiore, fallire nel fare un dolce. Fallire.
Fallire fa paura.
Io l’ho fatto un milione di volte. L’ho fatto anche oggi. Anche ieri. Sono abbastanza sicuro che lo farò anche domani, ormai mi conosco abbastanza per conoscere dove andrò a schiantarmi miseramente, come mi sentirò, quale sarà il livello di sofferenza.
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Ho visto me stesso
Ho visto me stesso ieri.
Era dentro di me.
Era nascosto là sotto tra le paure, sotto quel sorrisetto stentato.
Sotto anni di “non dire”.
Ho incontrato me stesso.
Ero qui.
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La mia prima volta (L’anima)
<- La mia prima volta
<- La mia prima volta (La vita)
Ricordo la prima volta come se fosse appena accaduta. I suoi capelli erano mossi, castano chiari, ricordo che a far scattare il tutto fu un ricciolo sbarazzino sulla fronte, si staccava dal resto dei capelli per spingersi fiero verso il centro e risalire. Quel ricciolo aveva attratto la mia attenzione, sembrava richiedere tutta la mia attenzione, sembrava volere che la mia attenzione si concentrasse solo su di lui quasi ignorando il resto della figura che lo portava. Avevo tredici anni ed eravamo a scuola nell’aula magna, non ricordo esattamente per cosa fossimo lì perché la mia attenzione era rivolta altrove. Non avevo idea di chi fosse perché era in un altra classe ma quel ricciolo spavaldo era in qualche modo un simbolo nella mia testa, il simbolo che avrebbe scatenato tutto il resto.
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La mia prima volta
La prima volta che lo feci non sembrava nulla di che. Alla fine lo facevano tutti, o almeno lo facevano le persone che io ritenevo le più intelligenti, le più sensibili, quelle di cui preferivo circondarmi. Ero un ragazzo, eravamo tutti ragazzi e sembrava una cosa figa.
Provi. Tanto hai tutta la vita davanti, anzi ai tuoi piedi. Perché a quell’età non hai idea di cosa sia la vita ne davanti ne dietro, sai cos’è l’oggi, l’adesso. Il domani è tuttalpiù il tempo che ti separa tra l’adesso e un evento interessante. Non sapevo che un giorno sarebbe diventato il tempo che mi separava tra l’ultima volta e la prossima, niente altro.
Il gioco è stato divertente, me lo ha proposto Marco e mi sono chiesto “cosa succede se provo? Cosa se non provo?”. L’unica risposta che mi sono dato è che se non lo avessi fatto sarei stato uno sfigato, che Marco non mi avrebbe considerato all’altezza.
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