Staipa’s Blog

Il Blog di Stefano Giolo, divulgazione informatica, uso consapevole tecnologia, e fatti miei

Perché ho smesso di scrivere poesie

Tempo di lettura 6 minuti

Scrivevo molta più poesia un tempo.
Ho scritto sempre molto, ricordo il primo racconto che ho scritto era qualcosa come il 1990. avevo otto anni, forse nove. Raccontava di un viaggio nello spazio in cui io, nel 2017 andavo su Marte e incontravo una popolazione aliena, ma non era fantascienza, utilizzava il cliché inizio novecentesco della perdita di sensi momentanea a distinguere la parte reale da quella immaginaria, un trucco mutuato da Poe o da altri scrittori della sua epoca. Avevo descritto la morte da dentro il morente descrivendo una serie di deformazioni sensoriali e poi la sua resurrezione in questo mondo alieno. Non spiegavo se il protagonista fosse morto davvero o no, se fosse inteso come reale o no tutto quanto accadeva dopo. Avevo otto anni, era il mio primo racconto e non so dire da dove venisse, avevo letto Il Richiamo Della Foresta, 20.000 leghe sotto i mari, forse qualcosa di Salgari non di più. La mia vocazione era lì. Nello scrivere. Nella tensione. Nello sperimentare. Nel crossover di generi. L’anno prima avevo imparato per la prima volta cosa fosse quello che le persone chiamano amore. L’amore di bimbo, sia chiaro, ma il mio piccolo cuoricino era esploso per la prima volta con le conseguenze imprevedibili con cui esplode un cuore quando un cuore esplode. Amavo anche i chiasmi. Ci vollero altri tre anni prima che esplodesse di nuovo per quel ricciolo su una fronte. Esplose la poesia in quegli anni.Non sapevo quanta ne avrei scritta, nel frattempo scrivevo lettere. Ricevevo e scrivevo lettere non saprei dire da quante persone, mi chiedo se qualcuno le conservi ancora, io le ho buttate quasi tutte. Centinaia. Tra il 97 e il 98 credo di averne scritta una ogni singolo giorno, molti giorni più di una. Fare qualcosa per così tanto tempo con tale frequenza non può non creare una dipendenza. All’epoca scrivevo con una stilografica. Scrivevo anche in poesia. Quasi ogni giorno. Credo di aver superato il migliaio di poesie, sperimentavo in quel modo, sperimentavo in quel mondo. Lo feci fino al 2003 con risultati via via più soddisfacenti. La mia emotività era sfogata con quello, l’unico modo di sfogare un fiume, un mondo, una sofferenza, una gioia, un tutto che trasbordava come un bicchiere pieno in cui continui a versare acqua da una bottiglia infinita. Era il mio modo di fermare un po’ di quell’acqua e cristallizzarla immobile come una fotografia, pensavo avrebbe fatto bene riprenderla quando ci fosse stata siccità. Pensavo che avevo così tanto da buttare fuori da dare, da regalare che perderlo in un tombino di scarico sarebbe stato uno spreco. Durò fino al 2003. Non avevo mai trovato un tombino vero prima di allora. Era lì che mi attendeva ed era la cosa più bella che potessi incontrare.

Sono in una gabbia di cristallo,
in una maledetta cazzo di gabbia di cristallo.
E potrei scappare se volessi, se non fosse così fottutamente bella.
Sono in una gabbia di cristallo
e non so più come uscirne, ne so come sono entrato.

Lo scrivevo allora. Non sapevo quanto quella gabbia sarebbe divenuta il mio vestito, la mia corazza, il mio scheletro, la mia essenza. Scrissi le mie poesie più belle come una stella che prima di spegnersi diventa enorme e brucia tutta se stessa, raggiunsi l’apice e mi spensi. La siccità era arrivata, il tombino aveva assorbito ognuna delle mie emozioni. Il paradosso è che prima mi tolse l’ansia, poi la paura, poi la rabbia, poi la tristezza e solo da ultimo l’amore. Fu l’esperienza più bella che avessi mai provato ma di me non rimaneva più nulla che valesse la pena essere pronunciato, figurarsi scritto su un foglio. Smisi in quel momento di scrivere in poesia. Ci provai ancora, sì. Credo di aver scritto almeno altre due sillogi complete dopo quel momento. Carta straccia.
Presidio di razionalità incapace di provare ciò di cui voleva disquisire.
C’era qualcosa di buono in questo. L’assenza di ansia, di rabbia, di paura sono qualcosa a cui molti ambiscono (Tenetevele, io vi dico, tenetele strette al cuore ed amatele e vivetele) e mi resero sfacciatamente più forte negli anni. Ma mancava qualcosa: la capacità di provare empatia, di piangere, di gioire, di credere nelle piccole cose. Se non provi paura tutto è privo di valore perché non ti interessa perderlo, se non provi ansia tutto è insipido perché o lo raggiungi o lo lasci andare senza ricerca spasmodica. Tutto privo di valore. Smisi di scrivere quando rilessi quello che avevo scritto un tempo. Potevo leccarne ancora l’acqua liquida scorrere tra le righe, le parole bagnate trasudavano ancora ogni emozione, la trasudano ancora oggi. Quello che scrivevo era secco e nero come la lingua di un uomo morto di sete. Vorrei dire pieno di ulcere ma le ulcere sarebbero state emozione, sarebbero state rabbia e non c’era neppure quella. Quello che scrivevo era morto. Io ero morto. Tutto era morto. Era come fotografare pareti di cemento che mi stringevano dentro me stesso, una uguale all’altra seppure con nuove parole, ricerche, sperimentazioni. Una uguale all’altra. Una

uguale

all’altra.

Poi mi hai preso per mano e trascinato. Ero ancora quella lingua secca e morta ma tu mi trascinavi inerte avanti e indietro. Aprivo gli occhi ogni tanto, poi li richiudevo, poi li riaprivo, poi sparisti. Anche se ci sei ancora là fuori, almeno tu. E credo ci sarai sempre. Non so quanto tempo passò, una pietra non conosce il tempo. Ed era come se il tempo fluttuasse tra un oggi e un passato remoto e un futuro e un imperfetto come immagini che appariranno e scomparvero e stanno illuminando quello che accadde pochi istanti fa come nei sogni. Poi però ero di nuovo un pezzo di pietra a terra, arido, o forse di terra secca e crepata grigia. Arrivasti tu. Piantando un seme? Non saprei ma la mia testa era aperta, una crepa in fronte e ci guardavi dentro, mentre stavi versandoci dell’acqua. Non mi volevi trascinare in giro, stavi curandomi o curando il seme che avevi piantato. Te ne sei andata perché non ti coglierò mai o non mi sono lasciato cogliere, stai fuggendo per sempre forse, non ne ho idea.
Fui a terra. Ero terra. Terra secca e non più dura roccia. Nasceva qualcosa nella mia testa. Un sogno, una realtà, un mondo dentro cui posso guardare e vedere muoversi vite ed ogni vita mi parlava e raccontava. Non erano capaci di provare emozioni perché io non sapevo darle a loro. Non erano capaci di provare emozioni perché raccontavano di quello che ero.
Poi sei arrivata tu, sembravi un porto pieno di emozioni, esplosioni, incredibili pulsioni, ti sfiorai il volto e si gelò la mano. Ero o non ero un pezzo di terra secca? Ti sfiorai il volto e si gelò la mia mano perché eri un pozzo. Di nuovo un pozzo di fronte a me. Non lo temevo. Infilai la mano dentro e ne estrassi la rabbia, l’ansia, ogni paura. Infilai la mano nel pozzo e ne estrassi la paura, la rabbia, l’ansia mordendole e respirandole e vivendole, non fu un tentativo di togliertele da dentro. Non mi importava, cosciente di quanto sarebbe un vano tentativo, ma fu desiderio di riprendere quello che avevo perduto. Estrassi dal pozzo rabbia, paura, ansia e me ne nutrii come una bestia col sangue che cola dalle fauci, li conoscevo ormai quei pozzi, vi ero già morto non mi spaventavano più. La rabbia, la paura, l’ansia mi resero più forte di quanto sia mai stato, più forte di quanto divenni perdendole. Ero incapace di controllare le nuove vecchie emozioni, incapace di equilibrio in tutto quel troppo. Non te ne andasti tu, ti cacciai per salvarci. O per lasciarti distruggerti, poco conta. Non tornerò mai. E poi piove. Piovve. Piove. Piovve riempiendo il mondo come un bicchiere vuoto che arriva velocemente al colmo e piove ancora. Mentre mi giravo dall’altra parte in faccia un abbraccio. Senza un preavviso. Come uno schiaffo. Il cuore battere forte come non avesse mai battuto prima. E scrivo in poesia. In costante disequilibrio tra un’emozione e l’altra imparo a domarle e viverle come un’acrobata su un filo appeso tra due torri nel vento, ed è la paura a reggermi in piedi, l’ansia, la rabbia che mi fai provare e qualcos’altro. E vorrei fotografare emozioni, farne trasudare dalle parole tutto quello che scoppia come una fontana ma soprattutto vorrei sentirmi libero di viverle, di essere, di vivere.
Di essere

di vivere

di essere

vivere

essere

vi

es

Disclaimer su racconti e poesie

Tutto ciò che leggi qui dentro è una libera rielaborazione di vissuti, sogni e immaginazioni. Non rispecchia necessariamente la mia realtà. Se chi legge presume di interpretare la mia vera persona, sbaglia. Se chi legge presume che tutto sia inventato, sbaglia parimenti. Se tu che leggi mi conosci, leggimi come leggeresti uno scrittore sconosciuto e non chiederti altro di diverso di ciò che chiederesti di questo.

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