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Il Blog di Stefano Giolo, divulgazione informatica, uso consapevole tecnologia, e fatti miei

Perchè si dice addio

Tempo di lettura 2 minuti
Questo è solo un articolo trovato per caso linkato su un forum… lo linko anche io perché mi ha fatto un po’ sorridere, e un po’ mettere il musino triste, mi ha fatto pensare a quante volte il mondo gira così, a quando io mi sono comportato così, a quando tante, non una, persone le ho viste far così e al sogno un po’ che un giorno possa andr a finire come in queste parole

Fonte blog di Giulia Carcasi

Perché si dice addioLa paura dell’abbandono fa fare cose assurde. Come mettere fine a una storia anche quando è quella giusta. E da quel momento, come racconta la scrittrice Giulia Carcasi, vivere come se la persona di cui siamo innamorate potesse ricomparire da un momento all’altro

Mentre le ragazze della mia età facevano coi maschi prove di volo, io facevo prove di abbandono. Dopo venti giorni di cinema, pizza, normalità, avvertivo l’urgenza di non vederli più. Ricorrevo all’addio tramite sms: “Non funziona”, come se si trattasse di un elettrodomestico. Un introverso mi rispose con uno squillo e sparì nel nulla. Un logorroico mi scrisse una lettera di cinque pagine in cui mi avvertiva che un dipendente era stato risarcito dall’azienda perché licenziato tramite sms, concludeva con: “Quanti danni morali dovrei chiedere io a te?”. Ora fa l’avvocato. Un ricco mi comprò un cellulare molto costoso per convincermi a richiamarlo. Non accettai: mi piacciono i regali, non gli investimenti. Ora lavora in Borsa. Un mammone, che mi aveva invitato a casa sua per presentarmi, mi rispose: “Mia madre ha preparato il pranzo, che le dico?”, gli consigliai di dirle che non avevo appetito. Ora le presentazioni le fa al ristorante. Con loro ero stata prevedibile, inaffidabile, seriale: mai una foto insieme, una promessa, un ripensamento. Eppure, se li incontravo per caso, ci tenevano a fermarmi, volevano a tutti i costi offrirmi un caffè, azzardavano un contatto, mi chiedevano perché fosse finita, io mi chiedevo perché fosse iniziata, perché non m’insultassero, perché non sentissero l’oltraggio, l’orgoglio, l’abbaglio.

ME N’ERO ANDATA PRIMA DELLA FINE: IO PER LORO NON AVEVO FATTO IN TEMPO A DIVENTARE STANCHEZZA, ERO RIMPIANTO, VOGLIA INTATTA, E LORO PER ME NON AVEVANO FATTO IN TEMPO A DIVENTARE MANCANZA

Ti ho conosciuto in una pizzeria, a una cena universitaria. Stavi seduto accanto a una ragazza, lei era di Latina, ma sosteneva che sua nonna era regina d’Etiopia, tu la guardavi perplesso. Ho preso posto accanto a te, ho pensato: sei tu. Un giorno quando racconterai ad altri il nostro inizio dirai che stavi parlando con una principessa ed è venuta a infastidirti una “zanzarina”, io ti dirò zanzarina a chi?, ma nei tuoi diminutivi sentirò il sollievo di non dover essere grande. Ci siamo rivisti un diciotto maggio alle diciotto, alla fine delle lezioni mi aspettavi. Hai chiesto il mio numero di telefono a un’amica comune e io l’ho rimproverata per avertelo dato. Paura di te, delle nostre notti passate a passeggiare a vanvera per Roma. Sai?, mi sembra che certe piazze e certe strade le abbiamo viste solo noi, non le ho più trovate. Mi hai portato in ristoranti sofisticati, ma dal Cinese ti sei fatto coraggio e m’hai baciato. Due giorno dopo ho provato a lasciarti: “Non funziona”, ti sei piantato sotto casa mia, hai pianto, hai detto: «Aggiustiamola» e ci abbiamo provato. A insegnarmi come si tiene e si lascia tenere una mano ce n’è voluto, io bravissima a scansare, mi prendevi la mano, indicavi un’insegna e dicevi «tienimela fino a lì, manca poco».

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