Ci ho riflettuto molto in questi anni, ogni volta che mi è successo, o che non mi è successo. Ho fatto ricerche, mi sono documentato: schizofrenia hanno detto.
Non lo è, per il semplice fatto che è reale, che ricordo dettagli che non potrei ricordare se fosse immaginazione. Dicono che negli anni mi si sia strutturata nella testa tutta una quantità di cose che non ho affrontato e che questo abbia costruito dei ricordi che si possono assimilare a ricordi reali ma che non lo sono, come sogni.
Io non ricordo il dolore nei sogni.
Non mi sono mai svegliato dai sogni provando sulla pelle o nelle ossa il ricordo fisico del dolore. Ovvio, dicono che mi sia addormentato in una posizione che mi ha causato dello spasmo, ci sono infinite giustificazioni ma non sono sufficienti. Non lo sono mai del tutto, anche perché non si tratta di sogni: attraverso il confine e vivo l’altra parte, e accade da dopo la prima volta in cui sono morto.
Le obbiezioni quando dico queste cose sono sempre le stesse. Dicono che tutti muoiono ma che si muore una volta sola. Io non lo so, e non lo sanno neanche loro perché non sono mai morti per la prima volta.
La chiamo la prima non perché ce ne siano state altre, so che dovrò morire ancora. Come tutti. Ma credo di dover morire ancora due volte. Una di qui e una di là, perché non è un sogno, non più di quanto io stesso sia un sogno proveniente dal di là del confine.
Ero un ragazzino la prima volta che sono morto, avevo sette anni, due mesi e tre giorni. Un ragazzino normale come tanti. Fino a quel momento avevo avuto una normalissima vita.
Una, normalissima vita.
Avevo appena terminato la seconda media, era il 19 di giugno. All’epoca portavo i capelli a caschetto in stile tazza che andavano di moda negli anni novanta, portavo quasi sempre una tuta di felpa grigia e uno zainetto pieno dei miei tesori, un piccolissimo coltellino trovato per terra, una lente di ingrandimento, una fionda che mio padre aveva piegato su un tondino di ferro e a cui aveva fissato la camera d’aria di una bicicletta, del nastro isolante, un paio di sassi dalla forma strana. Quel giorno avevo appena litigato con Giulia, la mia fidanzatina. Pensavo che il mondo sarebbe crollato perché anche se litigavamo un giorno sì e uno no, nel giorno sì per me tutto si oscurava.
Quello era un giorno sì.
Credo fosse l’emulazione dei nostri genitori a farci vivere in quel modo, i suoi li avrei visti divorziare pochi anni dopo se fossi rimasto vivo, e in effetti li vidi nonostante fossi morto quel giorno. Lo so, non è facile da comprendere ma quel giorno scappai fuori dalla ringhiera del condominio, c’era un albero che sapevo mi avrebbe permesso di arrivare abbastanza alto da salire in piedi sulla scatola di cemento dei contatori elettrici, non era in vista dalla finestra da cui mamma controllava il mondo come il faro di un carcere e con un po’ di fortuna sarei riuscito a scendere dall’altro lato poggiando i piedi sul cofano di un’auto. Fu così. Lo ricordo perfettamente perché i ricordi prima della morte restano vividi nella testa come ad averli vissuti a rallentatore, e perché è l’ultimo ricordo di un me stesso unito e apparentemente indivisibile come ognuno si aspetta di essere.
A volte mi ritrovo a pensare al fatto che tutto questo mondo è fatto di infiniti centri dove ogni essere umano percepisce la vista, lo spazio, il tatto, gli odori, i suoni in un suo modo unico e con l’impressione di esserne al centro. Mi soffermo a pensare che io sono una comparsa per uno sconosciuto che passeggia nel mio campo visivo, che potrebbe non avermi visto e potrei non esistere per lui. Ma questa è una sensazione che tutti provano, quello che fatico ad esprimere è l’essere due. Non due menti in una testa ma due corpi in mezza mente. Ero appena sceso sul cofano di quell’auto e dal cofano sull’asfalto, c’era una piccola rosa quasi viola a spuntare dal muretto, piccola e solitaria. Il mio ultimo ricordo.
Il mio primo ricordo.
Da quell’istante non sono più stato uno.
In genere mi capita quando sono stanco, credo sia capitato a chiunque quello che io chiamo rimbalzare nel sonno. In ufficio, o quando stai leggendo un libro o guardando un film la mente si estranea per qualche secondo e non stai più seguendo quello che stavi facendo, le palpebre si abbassano quasi impercettibilmente. la testa spesso si abbassa un po’ e il movimento risveglia l’apparato vestibolare dando quella minuscola carica adrenalinica che costringe le palpebre a spalancarsi e il collo a irrigidirsi riportando in posizione la testa, dopo qualche minuto il processo riprende con le palpebre che si abbassano, la testa, l’apparato vestibolare, la carica adrenalinica, le palpebre a spalancarsi, la testa a rialzarsi e ancora fino a scegliere di bersi un caffè, un grande bicchiere di acqua, lavarsi la faccia, andare a letto o qualsiasi scelta si possa fare per uscire dal ciclo, per smettere di rimbalzare. Quello è un luogo, o un tempo, di sottilità. Dove lo spazio e il tempo sono sottili tanto da sfiorare altri mondi, e non intendo tra il mondo reale e quello onirico anche se forse è proprio questo il concetto. Una sottilità tra più spazi e più tempi. Non ho ancora imparato ad attraversarla consapevolmente per quanto ci abbia provato negli anni, ma so che è possibile. La parte difficile è riprendere il controllo senza svegliare il corpo di qua, senza che l’apparato vestibolare ti costringa a ritirare la mano con cui hai attraversato la superficie che come un lago verticale divide un mondo da un altro.
Quella piccola rosa era davanti a me e da quel momento, dal momento immediatamente successivo per essere precisi, ho due ricordi perfetti e precisi. Nel primo, quello che non mi porta qui, sorridevo pensando che al mio ritorno avrei dovuto coglierla e portarla a Giulia ero pervaso da un improvviso stato di benessere consapevole che tutto sarebbe andato nel migliore dei modi, è così la mente dei bambini. Un istante piangi come se tutto l’universo ti fosse contro e l’istante dopo il mondo sorride e non ricordi neppure perché la rabbia ti aveva fatto fuggire. Mi voltai e feci tre passi oltre il muso dell’auto parcheggiata, al quarto divenne tutto buio. Ricordo il tempo rallentare e riesco ancora a guardare tutto come in un film con il grandangolo. Se guardo in alto vedo il cielo azzurro e due nuvole bianche, più in basso invece la vista si offusca da sinistra a destra con un oggetto che lentamente invade la vista, uno scatto improvviso che spegne tutto il lato sinistro dello schermo ed infine vedo spegnersi anche il lato destro. Se guardo più in basso vedo il mio corpo contorcersi a partire dall’anca che ruota disarticolandosi dalle spalle e si alza verso destra mentre la testa rimane immobile. Il tutto poi venire poi sostituito da una superficie bianca azzurra lucida, ma l’azzurro potrebbe essere il riflesso del cielo. Ho tutto il tempo di chiedermelo ma non riesco a decidere comunque. Poi tutto si spegne e diventa nero. Pochi istanti prima mi ricordo a guardare quella piccola rosellina e pensare che avrei potuto portarla a Giulia, sicuramente ero in tempo per riparare il danno e vedere le lentiggini sulle sue guance muoversi sul suo sorrisone, ero pervaso da un improvviso stato di benessere consapevole che tutto sarebbe andato nel migliore dei modi, è così la mente dei bambini. Un istante piangi come se tutto l’universo ti fosse contro e l’istante dopo sorridi consapevole che il mondo è buono e ti proteggerà sempre. La colsi e tornai senza pensare verso il cancelletto di casa. Sapevo che mia madre mi avrebbe scoperto e sgridato ma non c’era un modo sicuro di rientrare oltre la ringhiera e poi dovevo tornare da Giulia con il mio trofeo il prima possibile. Non avevo un’avventura da eroe da raccontarle per il coraggio di recuperare per lei un fiore da fuori del regno della regina cattiva?
Quando torno a pensare a questi due ricordi e ai successivi non li so distinguere. Ho la certezza di essermi risvegliato in un altro mondo dopo l’incidente, un mondo di mortali e non un paradiso o un inferno per quanto un bimbo innocente possa finirci. All’inizio non ricordavo di essere morto, né di Giulia o della rosa, non ricordavo nulla. Mi ero svegliato come da un sogno in un letto. Ricordo come mi facessero prurito le gambe e di come dei lacci mi impedissero di muovere le braccia per grattarmi. Credevo di essere in un incubo ma il dolore che sentivo al piede era troppo reale per essere finzione. Quando arrivò l’infermiera mi resi conto dal suo sguardo, e dai suoi vestiti, che qualcosa non andava. “Piccolo, come stai? Abbiamo dovuto legarti ma non temere” disse. Indossava un vestito verde con molte macchie scure e il suo sguardo era triste. Riuscii a stento a guardarmi attorno e vidi che in questo ospedale non c’erano pareti ma altri letti con bambini, adulti, moltissimi letti e pochissimi infermieri. “Ti va se ti libero la mano?” disse. “Sì”, risposi. “Però…” sospirò “non riesco a dirglielo” mormorò tra sé e sé.
Non mi sembra un ricordo meno vivo di quello in cui mia madre urlava dalla finestra “Cosa ci fai fuori? Adesso vengo giù e te ne buschi un paio di quelli giusti” e scendeva con la furia di un caccia bombardiere a colpirmi con due missili di mano pesanti come macigni. Li presi stoicamente stringendo forte il gambo della rosa dietro la schiena. “Cosa ci facevi là fuori?! Non azzardarti mai più a farlo! Adesso subito su in castigo!” questo non l’avevo previsto. E Giulia? E la rosa? Quando mi capita di rimbalzare sul sonno talvolta oscillo. Oscillo tra i mondi e i ricordi e sono il bimbo in quell’ospedale, e sono il bimbo attaccato da quel caccia bombardiere di madre, e ho colto la rosa e non l’ho colta. Quando smetto di rimbalzare mi alzo in piedi e per andare a sciacquarmi la faccia e so solo in quell’istante quale di quei due bambini sono.
Quello in grado di alzarsi in piedi sulle proprie gambe.
Dopo che l’infermiera mi aveva liberato la mano la prima cosa che feci fu allungarmi per togliermi quel prurito e cercare di capire perché il piede mi facesse male ma qualcosa non era come mi aspettavo. “Non ricordi, vero?” disse l’infermiera. “Cosa?” dissi io gelato nonostante il caldo torrido. “Non c’è un altro modo per dirtelo, Ahmed. Una mina. Sei finito su una mina. Come Jūl̊yā ieri, ma tu sei stato più fortunato.”
“Jūl̊yā?”
“Sì, la tua amica, non ricordi?”
Non avevo più le gambe. Le sentivo, sentivo il dolore al piede come fosse ancora lì ma il lenzuolo era inesorabilmente vuoto. Non c’era niente là sotto. Niente.
Anche da questo lato della realtà ho spesso provato dolore a quel piede dopo aver rimbalzato sul sonno, dopo aver oscillato. Mi hanno detto sia un problema di circolazione sanguigna. Sì, potrei crederci se non fossi certo che non è così. Se non ricordassi i mesi di riabilitazione, l’ospedale di Emergency, l’infermiera Sara, la dottoressa Alice, il dottor Mark. Se non ricordassi la difficoltà di crescere e diventare grande. Eppure ho due gambe, un po’ di acciacchi dovuti allo scarso sport e allo stare spesso seduto, sono un ingegnere di discreto successo e Giulia è viva anche se si è sposata da poco con quello sfigato di Andrea.
O forse è morta su una mina accanto a me.
Ricordo anche tutta la fatica per provare a raggiungere una nazione che non fosse l’Iraq in cui ero nato. Credo di essere arrivato qui. E per qui intendo qui. Nella mia città.
In realtà lo so. Perché sono qui, e sono stato picchiato, ho dormito al parco scendendo e issandomi da solo sulla sedia a rotelle che mi è stata data. Una sedia degli anni 70 pesante non so quanti kg ma abbastanza per muovermi e chiedere l’elemosina. Forse dovrei incontrarmi. Forse dovrei vedermi con me e darmi qualcosa per stare meglio, fare qualcosa. Ma in fondo non saprei come aiutarmi, e mi vergognerei di me stesso.
Forse è meglio dare ragione al mondo, devo essere schizofrenico.
Devo. Essere schizofrenico.
Lascia un commento