Di nero vestiti: il piano perfetto di un dio del Male

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Se io fossi una divinità del male, un’entità astuta e sottile, non mi manifesterei tra fiamme e corna, con riti oscuri e invocazioni blasfeme. Al contrario, se davvero volessi ingannare l’umanità, la strada più efficace sarebbe un’altra: creerei una religione.

Non una qualunque, ma una religione che si mascheri da religione del bene. Una fede che si presenti come l’unica verità possibile, assoluta, e che prometta amore eterno e salvezza, mentre instilla sensi di colpa, dolore, paura.

E quale miglior modello potrei usare, se non quello già esistente? Quello che ha influenzato per secoli la storia dell’umanità, la politica, la scienza e la cultura. Se fossi una divinità del male, creerei qualcosa di molto simile alla Chiesa Cattolica.

Prima di tutto, accentrerei il potere. Un mio emissario in Terra, infallibile, che parla a nome mio: il Papa. Un uomo che comanda su una rete gerarchica piramidale composta da cardinali, vescovi, preti. Tutti uomini, ovviamente, perché il potere, se deve corrompere, è più efficace se concentrato e maschile.

Questi emissari si vestirebbero di nero (con qualche dettaglio in oro, rosso porpora, bianco candido per dissimulare), predicherebbero la povertà mentre vivono tra ori, marmi e palazzi. Inviterebbero alla castità mentre abusano dei più deboli. Sfrutterebbero la fede per coprire crimini, perpetuare violenze, proteggere se stessi.

Per rendere tutto ancora più efficace, inculcherei nella mente dei fedeli l’idea che il sesso è peccato, che il corpo è corrotto, che la donna è tentazione, che l’amore libero è perversione. Così facendo, li convincerei a rinunciare a ciò che il dio buono avrebbe donato loro: piacere, libertà, bellezza, corporeità.

Ma io non sarei solo una divinità del male: sarei una divinità sadica. E cosa c’è di più soddisfacente, per un dio sadico, che vedere l’essere umano soffrire, tormentarsi, privarsi dei suoi istinti più vitali, confuso dal senso di colpa e umiliato nella sua natura?

Li osserverei inginocchiarsi su pavimenti gelidi, frustarsi le carni in nome della purezza, digiunare fino allo svenimento per pregare me, mentre rido nell’ombra. Perché il dolore, quando è scelto da chi è convinto che sia virtù, è il capolavoro della mia opera.

Creerei un sistema in cui i bambini crescano fin da piccoli nel timore, non dell’errore, ma del peccato. Un concetto astratto, spesso indefinibile, che rende tutti colpevoli. Per ogni gioia, una colpa. Per ogni desiderio, un castigo.

E se qualche animo libero si ribellasse? Se qualcuno iniziasse a pensare con la propria testa, a mettere in discussione la verità rivelata? Lo accuserei di eresia, lo metterei al rogo, lo costringerei al silenzio.

Come con Giordano Bruno, bruciato vivo per aver osato pensare. Come con Galileo, costretto a ritrattare davanti alla mia autorità per aver guardato il cielo e visto qualcosa che non volevo si vedesse.

E per evitare che altri seguissero il loro esempio, metterei al bando i libri. Ne creerei un indice, lungo, minaccioso, in cui vietare ogni parola che possa accendere una scintilla di ragione. Perché la cultura è pericolosa: fa pensare. E chi pensa, rischia di vedermi.

Il mio sistema avrebbe anche un nemico, ovviamente. Un nemico che in realtà non esiste, o che esiste ma è innocuo: Satana. Un simbolo che serve a terrorizzare, a mantenere i fedeli legati alla mia religione. “Fate il bene o finirete all’inferno”, direi. Ma quel bene lo definirei io, e coinciderebbe esattamente con ciò che mi conviene, ciò che soddisfa il mio sadismo.

E se invece quel nemico non fosse altro che il vero Dio buono? Colui che li ha creati liberi, perché potessero scegliere da soli la propria strada. Colui che ha dato loro la capacità di provare piacere, perché potessero goderne senza vergogna. Un Dio che ama davvero l’umanità, che l’ha voluta felice, creativa, libera. Ma io, Dio del male, farei in modo che lo odino. Che lo considerino debole, permissivo, falso. Lo coprirei d’insulti attraverso la mia dottrina, lo accuserei di assenza, mentre riempio io stesso il mondo di sofferenza.

Non mi limiterei a influenzare chi già mi conosce. Manderei i miei emissari in terre lontane, in nazioni che non sanno nulla di me. E lì, tra foreste e villaggi, conquistarebbero, razzierebbero, distruggerebbero culture e tradizioni millenarie. Convertirebbero con la croce e la spada. E una volta terminata la conquista, quando le urla degli oppressi si farebbero troppo forti, vestirei quegli stessi emissari da santi. Li trasformerei in missionari buoni, eroi dell’evangelizzazione, anime pie in cerca di anime da salvare.

E mentre sradicano popoli interi, intonerebbero canti in mio onore. Le Americhe, l’Africa, l’Asia: ogni continente sarebbe percorso dai miei preti coloniali, con la Bibbia in una mano e il fucile nell’altra.

Darei valore al martirio, all’autoflagellazione, alla rinuncia. Incoraggerei la sofferenza come via per la salvezza, perché nulla è più utile al male che convincere l’uomo a distruggersi da solo.

Ma la sofferenza non sarebbe solo spirituale. La imporrei con le leggi. Impedirei l’educazione sessuale, affinché i giovani vivano il corpo come minaccia. Condannerei l’aborto, anche nei casi più tragici. Difenderei il feto e ignorerei la madre. Benedirei le guerre, ma mi direi difensore della vita. Predicherei la pace, ma benedirei le armi.

E se poi le epoche cambiassero, se la modernità avanzasse e il dubbio iniziasse a serpeggiare, il mio clero si adatterebbe. Apparirebbe più aperto, più umano, più accogliente. Ma solo in apparenza: nel frattempo, continuerebbe a influenzare le leggi, a osteggiare la scienza, a condannare il suicidio assistito, la libertà delle donne, i diritti LGBTQ+.

Gestirei tesori sterminati, collezioni d’arte, immobili, banche. Manterrei un piccolo Stato nel cuore dell’Europa, immune da ogni controllo. E mentre parlo di povertà, siederei su troni d’oro. Quando qualcuno chiedesse trasparenza, risponderei col mistero, col dogma, col silenzio.

Infine, userei i simboli. Farei in modo che milioni di persone si segnino ogni giorno, automaticamente, come riflesso condizionato. Insegnerei loro a inginocchiarsi, a mormorare preghiere in lingue che non capiscono, a ripetere formule magiche. Così che la fede diventi abitudine, e l’abitudine obbedienza.

Se fossi una divinità del male, farei esattamente così. Perché non c’è forma di male più potente di quella che si traveste da bene.

E allora sorge una domanda inquietante: e se fosse già successo?

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