In questi giorni rimbalza ovunque la notizia del “primo equipaggio interamente femminile nello spazio”. Un trionfo, si è detto. Un momento storico per l’emancipazione. Un esempio per tutte le bambine del mondo.
Peccato che sia solo una trovata di marketing.
Il volo, targato Blue Origin, non era una missione scientifica, non era una spedizione spaziale, non era un traguardo tecnico: era un giro turistico di 11 minuti appena oltre la linea di Kármán, il confine convenzionale tra Terra e spazio. Una parabola automatizzata, interamente gestita da remoto, senza piloti a bordo.

E proprio questo è il punto: nessuna delle sei donne, pur famose o di successo, era lì in veste di astronauta. Nessuna ha condotto il mezzo, nessuna ha svolto esperimenti, nessuna ha portato avanti una ricerca. Erano semplicemente passeggeri, come chi prende un volo panoramico in elicottero.
L’intento, secondo Blue Origin, era “normalizzare la presenza femminile nello spazio”, “ispirare la prossima generazione di esploratrici”
Belle parole, forse troppo.
Tra le partecipanti c’erano Katy Perry, Lauren Sánchez -moglie di Jeff Bezos fondatore di Amazon e di Blue Origin-, la giornalista Gayle King, l’ingegnera Aisha Bowe, l’attivista Amanda Nguyen e la produttrice di film indipendenti Kerianne Flynn. Tutte donne brillanti nel proprio campo, certo. Ma nessuna astronauta. Nessuna addestrata per lavorare nello spazio.
Abbiamo avuto, e abbiamo, grandi donne astronauta: Valentina Tereshkova, Samantha Cristoforetti, Peggy Whitson, Christina Koch, Jessica Meir, Sunita Williams… Donne che hanno studiato, lavorato, rischiato. Donne che non sono finite sui giornali perché “finalmente una donna nello spazio”, ma perché hanno svolto ruoli chiave in missioni complesse, in ambienti ostili, con una competenza che non ha nulla da invidiare ai colleghi uomini.
Eppure, si preferisce dare enfasi a un volo passeggeri privo di contenuto scientifico, come se l’emancipazione femminile si risolvesse nella possibilità di acquistare un biglietto da centinaia di migliaia di dollari per fare un selfie a gravità zero. Non è questa la parità. È solo una nuova forma di confezione patinata, che trasforma il simbolo in spettacolo e l’inclusività in spot pubblicitario.
Vogliamo l’emancipazione delle donne e poi gioiamo quando sono – ancora una volta – sedute al lato passeggero.
Rendere visibili le donne nello spazio è importante. Ma facciamolo celebrando quelle che ci lavorano, non quelle che ci fanno un salto per farsi pubblicità. La differenza è sottile, ma fondamentale: perché il rispetto passa dal riconoscere il merito, non dal mettere il genere sotto i riflettori a prescindere.
Lo spazio, per chi lo conquista davvero, non è turismo. È sacrificio, studio, dedizione.
È lì che l’emancipazione si gioca. Non nei voli sponsorizzati. Non osannando donne sedute al posto del passeggero.
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