L’ho sempre fatto. Quando sono stanco, quando nella testa le cose non mi ci stanno più e devo lasciare che decantino, chiudo gli occhi. Ormai è un riflesso incondizionato che credo di portarmi dietro fino da quando ero un bambino. Non è solo riposare gli occhi si tratta proprio di non farci entrare più dentro le cose, la luce, le persone, i luoghi e lasciare per un po’ che i pensieri e tutte le cose che già ci sono entrate si riposino, un po’ come aspettare a versare in un imbuto e guardare l’acqua che ruota nel gorgo e scende. Quel tanto da lasciare che ci sia altro spazio. Allora posso riaprirli. Il meccanismo è talmente consolidato che ha dei suoi automatismi e dei suoi riti. Se la luce è troppa devo necessariamente posare la parte rigonfia ed esposta dell’attaccatura dei pollici alla mano sugli occhi e strofinare, li sento secchi e resto immobile così per qualche secondo. Se invece sto camminando in genere prendo un riferimento a terra, la linea delle mattonelle ad esempio e continuo a camminare con gli occhi chiusi. Poi li riapro e guardo se sono rimasto a camminare in linea retta o no. In genere ci riesco e poi mi chiedo se qualcuno che mi veda da fuori si accorga o meno, se facendolo io barcolli o sembri camminare normalmente. Spesso mi succede in auto, quando sono passeggero, e le persone parlano a voce alta di cose inutili e che non mi interessano ma che non riesco a scodare abbastanza in fretta da ignorare. Le cose dette entrano dalle orecchie nella gran parte delle persone ma nel mio caso chiudere gli occhi equivale comunque a staccare dal mondo, come se fosse la luce, l’immagine a fissare le parole nella testa.
Oggi le cose da pensare venivano da dentro, dai ricordi, dalle stronzate dette da qualcuno, dalle scelte. Oggi chiudere gli occhi era necessario perché le cose non entrassero più ma anche perché l’imbuto si svuotasse sia dal basso che dall’alto lasciando travasare tutto purché qualcuno smettesse di versare ancora. Un buon amico mi ha chiesto di uscire, sapeva di non potermi svuotare la testa ma sapeva anche che a volte urlare le cose, in faccia a qualcuno è meglio che tenersele dentro. Un buon amico queste cose le sa, le percepisce. Sa che è utile anche solo a rimetterle in ordine e guardarle una ad una. Mi ha dato appuntamento al Dubliners. Non ci andavo da… dall’ultima volta. Lo ricordo perfettamente da quanto, 76 giorni. Circa. Giorno più giorno meno. La chiamata ricevuta quel giorno, gli eventi precipitati. Tutto.
Ho chiuso gli occhi.
Li ho chiusi mentre Gazzè cantava la sua Comunque vada. Dalle casse stavano uscendo le sue parole Scappa via scappa via cosa mai sarà/scappa via scappa via non tornerà/Ma resto chiuso e un’amica si frantuma/in un istante un grido svaniscono parole quasi mute/immagini sfinite e il sogno delle sue bugie/marcite intorno alla mia stanza/Curiosità lontana torna fra i pensieri/come giovani farfalle provano le ali/sconnetto me da tutto e tutti si sconnettono.
Sessantaquattro secondi. Sessantaquattro prima che la sua voce e quelle note venissero coperte da un frastuono improvviso. Li ho tenuti chiusi gli occhi. Sarebbe stato comunque tardi per cambiare il tempo ed avevo già compreso cosa stesse accadendo. Prima che il caldo della pelle colpita dall’airbag mi inondasse il volto ed il rumore dentro la testa della cartilagine del naso spiccasse tra il resto dei suoni prima del silenzio.
Non aveva più senso aprire gli occhi a quel punto.
Lasciai defluire tutto.
Lasciai defluire.
Tutto.
Lascia un commento