L’arte di sparare sentenze: Perché nei commenti online vince l’arroganza

Sentenze
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Ti è mai capitato di aprire un articolo di giornale sui social network e scorrere i commenti? Se la risposta è sì, avrai sicuramente notato una scena sempre più familiare: utenti che sparano sentenze lapidarie con tono sprezzante, come fossero i massimi esperti di qualsiasi argomento. Che si tratti di politica, medicina, economia o scienza, ognuno si sente in diritto di dire la propria, spesso con poche informazioni e molta, troppa sicurezza. Ma da dove viene questa spinta a ergersi a giudice supremo senza nemmeno leggere l’articolo?

La risposta non è semplice, e chiama in causa dinamiche psicologiche, sociali e culturali che rendono i social network il terreno fertile ideale per la diffusione di questo fenomeno.

1. L’illusione della competenza

Uno dei problemi centrali è l’effetto Dunning-Kruger (https://short.staipa.it/y01sq), un bias cognitivo per cui chi ha scarse competenze in un argomento tende a sovrastimare la propria conoscenza. In altre parole: meno sappiamo, più pensiamo di sapere.

Sui social network, questa illusione si amplifica per due motivi:

  • Accessibilità delle informazioni: Qualche ricerca superficiale su Google o la lettura di un titolo sensazionalistico bastano a farci sentire esperti.
  • Mancanza di confronto reale: Nei commenti online manca il dialogo faccia a faccia che solitamente ci costringe a mettere in discussione le nostre affermazioni.

L’anonimato parziale e la distanza emotiva dai destinatari della nostra comunicazione ci danno un falso senso di sicurezza: Se io lo dico, deve essere giusto, se qualcuno mi contraddice posso risopondere senza pensare alle conseguenze come quando sono di fronte a una persona reale, se la conversazione si mette male posso smettere di rispondere e far finta di nulla.

A questo va aggiunto che in una platea così ampia è molto probabile trovare almeno qualcuno che la pensi come me, ed è probabile che riceverò dei like, delle conferme, dei commenti che rafforzino la mia idea, indipendentemente dal valore reale della stessa.

Non sorprende quindi che, a seconda del caso, tutti sembrino diventare improvvisamente virologi, meteorologi, fini statisti o esperti di geopolitica, in una sorta di metamorfosi digitale dell’esperienza.

2. La polarizzazione e l’effetto echo chamber

Un altro fenomeno che alimenta questa arroganza digitale è la polarizzazione sociale. Gli algoritmi dei social network sono progettati per mostrarci contenuti in linea con le nostre opinioni e idee. Di conseguenza, siamo esposti sempre meno a opinioni diverse e ci troviamo all’interno di vere e proprie echo chambers (short.staipa.it/st5gm), dove tutto quello che leggiamo rafforza ciò che già pensiamo.

Questo non solo consolida le nostre certezze, ma rende anche più difficile empatizzare con chi la pensa diversamente. Il risultato? Un dialogo che si trasforma in scontro: chi non è d’accordo diventa un nemico da abbattere a colpi di commenti sprezzanti e aggressivi, e ci sembra ridicolo, quasi grottesco pensare che qualcuno la pensi in maniera così diversa da quello che vediamo nella nostra bolla personale.

In questo contesto, emerge anche una tendenza inquietante: colpevolizzare le vittime. Ogni tragedia diventa terreno fertile per giudizi affrettati: “Se l’è cercata”, “Ma come faceva a non saperlo?”. Che si tratti di incidenti, violenze o stupri, molti utenti trovano conforto nel dare la colpa alle vittime, forse per sentirsi meno vulnerabili di fronte alla realtà. Questo fenomeno, noto come victim blaming, o colpevolizzazione della vittima (https://short.staipa.it/wwzyz), è radicato in meccanismi psicologici di difesa come:

  • Rimozione della responsabilità personale: Attribuire la colpa alla vittima consente di rassicurarsi che eventi simili non accadrebbero a noi, poiché riteniamo di non commettere gli stessi errori.
  • Razionalezza retrospettiva (hindsight bias): La tendenza a credere che le conseguenze di un evento fossero prevedibili, portando a giudicare chi non le ha evitate come negligente o responsabile.
  • Proiezione: Giudicare duramente le vittime può essere un modo per evitare di confrontarsi con le proprie insicurezze o vulnerabilità.
  • Dissonanza cognitiva: Minimizzare la responsabilità dell’aggressore o enfatizzare gli errori della vittima può servire a ridurre il disagio che si prova di fronte a una realtà complessa e ingiusta.

3. La rabbia come valuta sociale

uesto avviene perché ricevere like e condivisioni stimola il rilascio di endorfine e dopamina nel cervello, creando una sensazione di gratificazione immediata simile a una ricompensa, che rinforza il comportamento e spinge a replicarlo. Un fenomeno ormai ben studiato e acclarato (https://short.staipa.it/3iqiu), che evidenzia come i social network attivino i circuiti di ricompensa cerebrale in maniera simile ad altre esperienze gratificanti.

Questo crea un circolo vizioso in cui esprimere un parere con arroganza e sicurezza diventa un mezzo per ottenere attenzione. Il premio non è la verità o la comprensione, ma il semplice riconoscimento sociale attraverso l’engagement.

4. Perché la rabbia? Dinamiche psicologiche

Dietro questa rabbia crescente si nasconde una profonda frustrazione. La società attuale è veloce, iperconnessa e complessa. La sensazione di non avere controllo sugli eventi porta molte persone a sfogare il proprio disagio in uno spazio virtuale.

Un commento rabbioso e sicuro serve a rassicurare se stessi: “Io so come stanno le cose, sono meglio di chiunque altro”. La verità è che questa sicurezza nasconde spesso paura e insicurezza.

5. Cosa si può fare? Verso un dialogo più sano

Cambiare queste dinamiche è complesso, ma non impossibile. Ecco alcune proposte per mitigare il fenomeno:

  • Educazione al pensiero critico: Insegnare fin da giovani a leggere, analizzare e mettere in discussione le fonti delle informazioni.
  • Frenare l’impulsività: Prima di commentare, fermarsi a riflettere: ho letto davvero l’articolo? Sto portando un contributo utile alla discussione?
  • Responsabilizzare i social network: Le piattaforme dovrebbero incentivare contenuti di qualità piuttosto che interazioni rabbiose.
  • Promuovere il confronto costruttivo: Valorizzare spazi di dialogo dove il confronto tra idee diverse è incoraggiato, non punito.

Cosa possiamo fare noi nel nostro piccolo?

Ognuno di noi, nel suo piccolo, può contribuire a un ambiente digitale più sano:

  • Prendersi tempo: Leggere davvero l’articolo, verificare le fonti e non fermarsi ai titoli.
  • Praticare l’empatia: Mettersi nei panni di chi è coinvolto e riflettere prima di giudicare.
  • Segnalare contenuti tossici: Quando ci imbattiamo in commenti offensivi o disinformazione, segnalare può fare la differenza.
  • Incentivare il buon esempio: Rispondere con gentilezza e rispetto anche a chi sembra provocare.
  • Uscire dalle camere dell’eco: Cercare fonti e opinioni diverse per sviluppare un pensiero critico più ampio.

Conclusione: Un commento non è una sentenza

La prossima volta che ti troverai a commentare un articolo online, fermati un momento. Leggi, rifletti, e chiediti: sto aggiungendo qualcosa alla discussione o sto solo dando sfogo alla mia frustrazione? La differenza è enorme, e lo dico anche a me stesso.

Dietro ogni titolo di giornale, ogni post e ogni argomento, c’è una complessità che merita rispetto. Scegliere di commentare con curiosità e apertura, anziché con arroganza e rabbia, è un piccolo passo che possiamo fare per costruire un dialogo migliore.

Forse è ora di smettere di sparare sentenze e tornare a fare ciò che in fondo dovremmo fare tutti: informarci, ascoltare e, solo dopo, parlare.

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