Non c’era nulla. Ma non è facile spiegare cosa significhi il non esserci nulla. Quando tu guardi un cassetto vuoto e dici che dentro non c’è nulla non è vero, c’è l’aria. Ma non è tanto quello, la questione è che comunque c’è il cassetto, un contenitore. Un bicchiere vuoto è comunque un bicchiere, un lago prosciugato è comunque una conca piena di sabbia o pietre, un deserto per quanto vuoto è sempre un deserto. Là invece non c’era nulla. O forse è più corretto dire che c’era nulla. Il nulla normalmente non c’è ne nel cassetto vuoto, né nel bicchiere, né nel lago prosciugato né nel deserto. Lì invece era il nulla, guardarvi dentro era esattamente come essere cechi. Non è possibile spiegarlo meglio anche perché nessuno di noi è mai stato cieco probabilmente ma se dovessi immaginare di esserlo lo immaginerei in quel modo, non era nero, non era un buco, non era quello che vedi in una grotta profonda perché tutte queste cose danno una speranza, la convinzione certa che accendendo un lumino qualcosa apparirebbe, anche fosse solo la tua mano. Là dentro no. Solo a guardarlo avevi la certezza che un proiettore luminoso non avrebbe sortito differenze a puntarcelo contro, e che a infilarvelo dentro avrebbe semplicemente cessato di esistere, il proiettore e tutto quello che vi sarebbe entrato.
Guardarlo era come guardare dentro te stesso con gli occhi di qualcun’altro che stai guardando. Una continua vertigine del guardare il nulla e sentire il nulla osservarti dentro mentre lo osservi guardarti dentro. Come ad inquadrare con una telecamera lo schermo su cui proietta l’immagine. Ma tutto questo era solo emotivo, non aveva nulla a che fare con la visione, anzi la non visione di quel niente. Era Nietzsche a dire “Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te“? Il nulla tuttavia non era neppure un mostro, o un abisso, altrimenti sarebbe stato qualcosa ma era lì ed era impossibile distogliere lo sguardo. Paura e desiderio di entrarvi, desiderio e paura di conoscerlo, di farne parte, di esserne parte, di esserlo a mia volta. Era lì, nel paradosso di non essere ma di avere un luogo, un confine che se prima era lontano, nel tempo era divenuto poco distante dal mio volto. Avrei potuto allungare una mano e toccarlo, entrarvi, scoprire cosa fosse o non fosse. Non riuscivo neppure a distogliere lo sguardo per osservare le mie dita prima di spingerle nella sua direzione, non riuscivo neppure più a chiudere le palpebre e il mio respiro accelerava.
Poi una voce mi chiamò alle spalle. Fu allora che riuscii a voltarmi, a distogliere la vista. Quando tornai a guardarlo era scomparso, o al contrario era riapparso il mondo.
Non vi era più nulla, ma tutto.
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