Dodici gradi

Racconti
Tempo di lettura 7 minuti

Era una sera di quelle in cui la temperatura ti fa rabbrividire solo un istante, il respiro si addensava in una piccola nube prima di scomparire quasi improvvisamente, indossavamo tutti maglioncini leggeri o giacche leggere, ed era buio.
Moltissimo buio.
Ricordo l’aria frizzante di quella sera come fosse oggi, come fosse vera, e ricordo di aver girato la testa incontrando accanto ai miei occhi la mano di mio padre, la presi e la tirai leggermente verso di me, lui sembrava assorto a guardare nella stessa direzione in cui stavo guardando io solo pochi istanti prima.
Ho sentito la mia voce dire “papà, papà, ma chi è quella ragazzina”?
Era sulla strada davanti a casa mia, a terra, piatta come un foglio di carta leggermente raggrinzito, attorno a lei c’erano dei signori che non conoscevo e qualche mio zio o zia che non saprei definire, c’era anche la zia gilda, e quella signora che mi dava sempre le caramelle al miele. Entrambe signore anziane nel buio della sera si distinguevano solo per il fumo che usciva dalle loro bocche e che vedevo nonostante fossero di spalle salire qualche istante dalle loro teste.
Erano vestite di nero, con il velo in testa e quei vestiti tipici delle donne anziane delle zone rurali. Osservavano tutti la bambina schiacciata, quasi fosse disegnata a terra e il signore che con una spatola di ferro la stava staccando dall’asfalto e ne stava raccogliendo i resti, come quando si stacca un adesivo da un contenitore di plastica.
La bambina era anch’essa vestita di nero come tutto, portava un vestito intero con le gonne che arrivavano fino all’altezza delle ginocchia e delle scarpe di vernice in tinta.
Il viso era dolce, non sorridente ma neppure triste, era difficile distinguere molto i lineamenti, un po’ per l’età, un po’ per la piattezza dell’immagine, aveva però lunghi capelli neri raccolti in due trecce ai lati.

Mi svegliai lentamente, non di soprassalto, passai dallo stato del sonno a quello della veglia pensando ancora a chi potesse essere questa ragazzina, provavo un senso forte legame elettivo nei suoi confronti e una mezza consapevolezza che non fosse un sogno fino in fondo, le diedi il mio stesso nome ma ovviamente al femminile.

Quando fui completamente sveglio piangevo per la sua assenza, per il suo essersene andata dal mio mondo, in un modo o nell’altro. Ero un bambino, di sei anni ed è il ricordo di sogno più vecchio che io abbia.

Mi ha accompagnato per tutta la vita in un modo o nell’altro, ci sono certi giorni nelle mezze stagioni, a settembre quando l’aria si raffredda o a marzo quando sta iniziando ad andarsene il freddo in cui passando davanti alla casa dove abitavo sento ancora quella lieve brezza, osservo l’aria addensarsi poco davanti alla mia bocca e poi allontanarsi e guardo come aspettandomi di incontrare quella bambina, o di vedere cosa le fosse accaduto.

Ricordo altri due sogni non molto distanti, il primo so di averlo fatto qualche mese dopo di questo, nel sogno ero adulto, guidavo un auto e questa si fermava ai bordi di una strada rialzata, da lontano vedevo giù dal dirupo una donna, in questo sogno ero adulto, immobile a guardare in direzione opposta alla mia. Scesi dall’auto e percorsi la discesa verso la donna, la raggiunsi mentre era ancora voltata di spalle e le toccai una mano.
Un istante dopo stavamo scappando da un branco di lupi e mi svegliai del tutto privo di paura come se fosse stato il sogno più avvincente, l’avventura più divertente mai vissuta, tanto che la ripetei decine e decine di volte nei miei giochi a scuola nelle settimane a venire.

Nel tempo mi capitava spesso di sentire la sensazione di essere tornato a quel momento, quell’aria leggermente fresca, frizzante, il buio attorno, i lampioni spenti, forse solo uno lampeggiante per dare l’atmosfera del vedo e non vedo, e la netta sensazione che girandomi avrei visto la bambina, o la donna adulta che nel frattempo poteva essere diventata.

Nella mia adolescenza quella bambina divenne il mio ideale di bellezza, negli occhi di ogni ragazzina cercavo i suoi, cercavo una ragazzina col mio nome, una ragazza con quei capelli, una donna con quello sguardo.

Quando ero adolescente sognai di incontrarla, fu come un colpo di fulmine improvviso, la incontrai e l’affinità elettiva che ci legava esplose in una scintilla, non so descrivere come ma il sogno durò mesi in cui ogni sera ci vedevamo, uscivamo, facevamo mille cose ma al contempo non ricordo nessuna di queste cose, ricordo la sensazione di averle vissute. Lei era sempre vestita di nero e portava ancora quei capelli neri raccolti anche se più corti rispetto al primo sogno.
Un giorno decise di portarmi a casa sua, per presentarmi suo padre, abitava vicino a dove abitavo nella realtà, saprei anche andare a suonare a quel campanello se mai ne avessi avuto il coraggio. Nel sogno suonò lei, una volta entrato ricordo la stanza il tavolone grande, il camino, ricordo quell’aria di casa calda, quel senso di focolare domestico d’altri tempi, ricordo di aver discusso con suo padre dei miei studi, di cosa avrei voluto fare da grande, mi disse cosa secondo lui sarebbe stato conveniente facessi nella mia vita, che è poi quel che feci nella realtà ma non per i suoi consigli.
Poi mi girai per sorridere a lei, ma lei non c’era, chiesi a suo padre e lui si mise a piangere e mi svegliai.

Fu uno dei sogni più strani che feci e l’ultimo in cui la sognai dormendo, passarono molti anni da allora divenni il professionista che curiosamente nel sogno mi era stato consigliato di diventare ma non ebbi mai un buon rapporto con le donne, non saprei dire il perché, o forse si. Non avevano quei capelli, quello sguardo, o quando lo avevano ne ero terrorizzato.

Un giorno diversi anni fa stavo guidando, non ricordo neppure da dove tornassi, cosa ci facessi lì se mi distrassi, se corressi, non ricordo nulla, ma ero su una curva di una tangenziale poco lontano da dove abito ora, persi il controllo del mezzo, improvvisamente, senza alcun presagio la coda cominciò ad allargarsi, a perdere aderenza a scivolare verso l’esterno. Ricordo tutto come a rallentatore, il tempo di pensare che non sarebbe potuta finire bene, la lucidità di controsterzare, il pensiero dei corsi di guida sicura in cui mi ripetevano che il corpo tende a far girare l’auto nella direzione in cui si guarda, il pensiero costante di guardare la strada nella direzione in cui avrei dovuto andare, il guardrail che sfiora il muso della macchina mentre la coda è già sulla corsia di destra. Ho tutto il tempo di pensare che sono fortunato ad essere su una strada a doppia corsia ma a senso unico e di essere su quella di sinistra, finalmente il controsterzo comincia ad agire e la coda ricomincia a rientrare, giusto il tempo di sperare di essermela cavata e poi di accorgermi dell’effetto pendolo che porta l’auto a ruotare nella direzione opposta, giusto il tempo di pensare ancora di guardare nella direzione giusta in modo che la memoria muscolare faccia il resto.
Non so quanto sia durato, ma dentro di me è durato ore il tempo tra l’inizio di quella sbandata e la fine. Immobile al centro della strada, senza danni.

Chiusi gli occhi e respirai.

Chiusi gli occhi e ringraziai il cielo per essere stato solo in macchina e per non aver ceduto al panico.

Posai la mano sul sedile del passeggero, poco distante dal freno a mano, sempre con gli occhi chiusi e sentii una mano toccarmi, una mano calda, liscia.
L’aria era frizzante o forse era l’adrenalina ad esserlo, aprii gli occhi e accanto a me non c’era nessuno, guardai subito la mia mano e non notai nulla di strano.

Tornai a casa lentamente ancora con il cuore in gola, incapace, incapacitato, in crisi, ed una volta arrivato mi misi a letto e spensi la luce.
Il cuore batteva ancora terribilmente forte, dovevo bere un goccio di Jack, aprii gli occhi e allungando la mano verso l’interruttore mi cadde lo sguardo sull’armadio a specchio, la luce era poca, solo quella che filtrava dagli scuri semichiusi dalla notte, ma accanto a me, dietro di me nel letto vidi una donna dai lunghi capelli raccolti su due trecce, accesi la luce e mi voltai a guardarla.

Non c’era.

Ora sono qui, guardo il liquido dorato nel bicchiere largo, lo faccio ruotare, penso che sia uno dei colori più belli che conosca quello del whiskey, e mi piace la densità così diversa da quella dell’acqua, il modo di muoversi, l’odore forte prima di berlo il gusto forte e delicato che cambia nel tempo del sorseggio tra infinite sfumature tra dolce e amaro, ed il retrogusto che rimane.
Non sono più stato al buio da allora. Non ho più spento la luce ne sono uscito di casa la sera.
Ho un termometro da esterni e non esco mai se la temperatura non è lontana dai dodici gradi, molto più bassa o molto più alta non importa, ma non voglio più sentire quell’aria frizzante, non voglio più vedere l’aria del respiro addensarsi in quel modo.
Non ho più dormito con le luci spente e non ho più guidato, i miei colleghi mi danno del pazzo perché cammino un ora e mezzo ogni giorno, andata e ritorno. Le giornate si stanno accorciando però, e la temperatura si abbassa, non manca molto a quando non potrò più andare a lavoro e senza passare dal buio, senza vedere addensarsi l’aria del respiro.

Per questo scrivo questa lettera.
Ora il bicchiere è finito, e sento il freddo dentro.
Ora il bicchiere è finito e spegnerò la luce.

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Disclaimer su racconti e poesie

Tutto ciò che leggi qui dentro è una libera rielaborazione di vissuti, sogni e immaginazioni. Non rispecchia necessariamente la mia realtà. Se chi legge presume di interpretare la mia vera persona, sbaglia. Se chi legge presume che tutto sia inventato, sbaglia parimenti. Se tu che leggi mi conosci, leggimi come leggeresti uno scrittore sconosciuto e non chiederti altro di diverso di ciò che chiederesti di questo.

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Citazioni a caso

«Casa» è guardare la luna che sorge sul deserto e avere qualcuno da chiamare alla finestra, a guardarla insieme con te. «Casa» è dove puoi ballare con qualcuno, e la danza è vita.Stephen King
22/11/76

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