Sono stato a non so quanti concerti nella mia vita, e non so con quante persone nel tempo, nello spazio, tra le dimensioni.
I concerti per me si dividono in due macro categorie, la prima è quella in cui vado ad ascoltare musica, la seconda è quella in cui vado a incontrare musica.
Oggi sono qui, la folla mi attornia, di fronte a me una ragazza dai capelli ricci mi ricorda qualcuno, si muove come immersa nel mondo del suono, la vedo sorridere pur non vedendone il volto e ne riconoscerei il sorriso. Accanto a me una vecchia amica con cui condivido una passione del tutto musicale e di ricordi di mare, di monti, di tramonti Corsi e dell’odore di quel fuoco, e di fonte a lei immancabilmente la donna più alta del mondo a spostarsi ovunque lei vada. Due donne nascondono il loro affetto reciproco che non è d’amicizia pura e tra rockers e persone raffinate la folla si mescola in caleidoscopiche combinazioni di colori e di volti, persone si muovono all’unisono pendendo dalle labbra di una cantante non più così giovane come un tempo ma d’una carica immensa, ed io lì al centro di un mondo fino. Non saprei come descriverlo con una parola diversa. Fino come carta velina e sfocato e distante come lo sfondo di un ritratto in primo piano, io sono lì accanto alla sua voce, neppure il suo volto e niente esiste attorno, non esistono le braccia fini della ragazza di fronte a me, non esiste la mia amica, le due amanti, non esistono i metallari e le signore raffinate, i cartelli, e i salti.
Da fuori devo sembrare del tutto intontito, silenzioso, spento mentre dentro si muove un mondo di immagini colori e sensazioni e ricordi di mare di chitarre di un letto grande del volto di una vecchia amica che non vedo da troppo tempo e che continuerò a non vedere per troppo tempo ancora e che forse incontrerò un giorno altrove, da un altra parte in un altro quando dove e perché.
Non è così magra come un tempo sul palco la voce, formosa più di quando faceva preoccupare il suo pubblico e con quel vestito mi ricorda un altra voce accanto all’orecchio a suonare quella chitarra per me, all’orecchio, mentre con pezzi di specchio distrutto tra le mani cercavo immagini che mi dicessero chi ero e non le vedevo, le ombre ne nascondono il volto e le labbra si trasformano in quelle labbra che sapevano ascoltare e parlare e dire e amare pur senza amare ed essere salvezza costante. Sento quella chitarra acustica lontana da tutti i suoni entrare dentro come un pugno, come quel pugno che sentisti dentro un giorno davanti alla porta di casa quando pronunciai quelle parole. E scivolo nei meandri di altri istanti di un auto a vagare per ore nel nulla di un mondo che era tutto tra le due porte e nulla al di fuori.
“Accontentarsi di niente” è una frase che ruota nel cielo di questo ambiente chiuso azzurro di nuvole chiare d’un giorno d’estate tra i papaveri “accontentarsi di niente” in qualunque modo tu voglia leggerlo è la risposta. Tra lo scegliere di arrendersi o il lottare all’infinito e ruota nell’essere, nell’etere, come sdraiato sopra di me fiori a forma di mani a muoversi nel vento creato dai suoni ed il sole delle luci e dell’amore che viene scagliato da un palco quasi sputato di rabbia e per questo vivo.
Ho passato anni ad accumulare ricordi, ho passato anni a vivere mondi diversi unendo in me infinite esperienze cozzanti diverse intersecanti che esplodono in momenti in cui vivo la musica o creo e poi d’un tratto quasi un istante dopo essere iniziato, due ore e più tardi, le urla gli applausi ed accanto a me ancora la mia vecchia cara amica, le due amanti segrete e tutti gli altri mentre si accendono le luci ed è ora di tornare.
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