Il rumore che la maniglia produsse fu secco ma chiaro, sentii inizialmente la resistenza alla rotazione e poi dopo un lieve sforzo lo scatto ed il suono del blocco che usciva dallo stipite per lasciare libera lo specchio, la figura accanto a me stava facendo lo stesso e mentre aprivo la porta la vidi sia nel riflesso -finché mi fu possibile- che nella proiezione reale. Fu quando la osservai entrare nel nero del legno che vedevo dietro che mi accorsi che qualcosa non andava.
Il vetro si era staccato dal pannello di ebano ma non si aprì alcun passaggio, anzi, una parte si era rimasta lasciando una porta più piccola ancora chiusa.
Il cuore mi batté forte in gola forse per la prima volta in questo strano viaggio, batté forte da farmi sembrare di non essere più in grado di respirare, sentii la gola chiusa ed i peli sulla nuca mi si rizzarono mentre misi la mano sulla nuova maniglia che era spuntata. Provai ad aprire un nuovo passaggio ma accadde lo stesso: dopo un secco suono anche questa parte di specchio si staccò dal legno ruotando su cardini che prima erano invisibili e rimanendo a puntare verso l’esterno vuotamente senza che fosse possibile entrare e lasciando una nuova più piccola porzione di specchio con una nuova e più piccola maniglia, aprii anche questa, ed una ulteriore più piccola, ed un altra ancora, ed un altra. Non so quanto avrei potuto proseguire ma mi fermai.
Mi guardai attorno e vidi solo il buio di questo luogo, il pavimento in ossidiana lo specchio ormai aperto e nessun punto di riferimento se non quest’ultimo. Decisi che l’unica direzione che potessi prendere era quella perpendicolare a quella che era la porta, era la scelta più logica, lei dava in quella direzione e quella era l’unica direzione nella quale avrei potuto non perderla di vista troppo presto. L’orologio segnava le dodici e venti ma non saprei dire se fosse presto o tardi, ne se fosse mezzanotte o mezzogiorno, non contava, l’unica cosa che qui contava i minuti era quella che meno contava nella realtà, sottile ironia.
L’unica cosa che incontrai camminando fu ad un certo punto una sedia, sola abbandonata di lato e a terra poco più avanti piccolo peso conico di quelli usati nei laboratori di fisica, niente altro. Poi pian piano la luce cominciò ad aumentare, gradualmente. In un primo momento non me ne accorsi neppure ma mentre la luce aumentava il nero lucido del pavimento appariva meno nero, meno lucido virando lentamente verso un marrone opaco e compatto, mentre la luce aumentava dal marrone compatto salivano fili d’erba prima isolati poi sempre più frequenti, poi nel tempo divenne un prato ed il nero sopra divenne un azzurro quasi accecante popolato di solitari e bianchi nembi, pareva il cielo d’estate ed il verde dell’erba era così lucente da essere quasi anch’esso accecante.
Passai accanto ad una tenda ma non mi fermai ad osservarla, osservai il fiore che vi era nato accanto, una margherita gigante bianca ma ancora non mi fermai a vedere quel fiore perché poco più avanti c’ero io, o il mio corpo, o una mia nuova rappresentazione. Non ero bambino e non ero il giovane invecchiato che vidi nello specchio, ero io.
Immobile sdraiato nell’erba accanto ad un fuoco spento. Seguii l’istinto, niente altro e mi sdraiai non accanto ma dentro me, compenetrandomi a quel corpo. Chiusi gli occhi.
Quando ho aperto gli occhi, poco fa ero ancora in quel prato, tra le mani una copia di “Alice Nel Paese Delle Meraviglie” nella versione originale illustrata da Sir John Tenniel, è aperto su una delle prime pagine “Alice, key in hand, finds the door to Wonderland/Alice, chiave nella mano, trova la porta del paese delle meraviglie”. Non ho ancora iniziato a leggerlo, ma credo non lo farò, credo di averne già visto abbastanza per ora, per il futuro invece non c’è certezza alcuna.
Ora voglio solo andarmene di qui, voglio camminare, seguire questa strada di gialli mattoni ovunque essa porti.
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