Ci sto pensando da un po’. Al togliersi la vita, non specificatamente al togliermi la vita. Ne ho scritto un po’ “Una società incapace di comprendere il suicidio e la droga“, ma non come avrei voluto. Recentemente sembra che il suicidio stia diventando particolarmente mainstream, tra la mezza bufala del Blue Whale, 13 Reasons Why che ne da una visione piuttosto romanzata e meno drammatica ma che potrebbe aiutare molti a capirne almeno parte dei meccanismi, il suicidio di Chris Cornell. Un mito della gente della mia età, uno che almeno una volta nella vita avresti voluto essere al suo posto, su quel palco, davanti a migliaia di fan in deliro, un uomo da invidiare.
Non credo sia un male parlarne. Credo che la società dovrebbe essere maggiormente in grado di recepire il suicidio come realtà possibile e comportarsi di conseguenza, non tanto per evitarlo come fatto in sé quanto per evitare che le persone che abbiamo accanto soffrano al punto di arrivare a questa scelta.
Le domande che invece la società si pone finiscono per essere sempre quelle che può fare chi vede le cose da fuori, e le domande del vivo diciamo.
Ci si chiede se sia giusto togliersi la vita lasciando gli altri nel dolore, ci si chiede se ci fosse qualcosa che si sarebbe potuto fare, ci si chiede come si possa uccidersi al cospetto di tanta gente che invece vorrebbe vivere e non può farlo. Si guarda il mondo, come purtroppo naturale, dal punto di vista di chi resta, dal punto di vista di chi non si toglierebbe mai la vita. Si dimentica che esiste questo grande parolone che è depressione, si dimentica che dietro questo parolone ci sono dei significati che il più delle persone non conoscono, non hanno vissuto, non riescono a capire. Un parolone che rivolta completamente il significato del mondo, delle parole, della vita e della morte. Ma anche dire depressione è una semplificazione che ci impedisce spesso di scendere più a fondo. Là dove risiedono le emozioni. Là dove risiedono le cose che ci muovono davvero.
Ci ho provato diverse volte a scriverne come sto facendo ora. Non serve. Non verrebbe compreso. C’è un altro modo che mi appartiene, come scrittore, c’è uno che credo possa essere forse l’unico efficace, vogliatemi scusare se per qualcuno possa essere forte.
Ci ho pensato. Ci ho pensato decine di volte. Centinaia. Probabilmente è tutta la vita che ci penso se di vita si può parlare della mia. Ci penso, ci arrivo vicino, guardo giù dall’orlo e poi qualcosa, per caso, passa a salvarmi. O forse fino ad oggi è stato solo l’istinto di conservazione, sarebbe bastato il vento che ora ho alle spalle per spingermi giù. Quello che mi ha fatto finalmente lanciare. Credevo facesse più paura ma è stato come staccare la mano dal bordo della piscina. Niente più. Dopo anni attaccato al bordo ora ho semplicemente lasciato la mano e me ne sono andato per sempre. Un sollievo. Niente altro. Mi sono sempre chiesto prima di sentire questo vento che cosa avrebbero pensato le persone che sugli spalti di questa piscina sono rimasti a guardarmi, mia madre, mio padre, Luca, Arianna… penso che in realtà non me ne frega nulla perché tra poco io cesserò di esistere e loro per la prima volta si accorgeranno che ero nell’acqua invece che accanto a loro. Sono sempre stato nell’acqua. E glie l’ho sempre fatto notare. Ho fatto di tutto per farglielo notare, ho alternato il mio umore per farlo notare, ho urlato in faccia che stavo male, l’ho fatto in mille modi. Soffriranno sì, ma il mio cuore è talmente freddo, oggi, che non mi importa. Che lo trovo quasi giusto. Il contrappasso. Io ero qui nell’acqua e loro mi davano la mano giusto il tempo di sollevarmi un po’, poi si voltavano a chiacchierare d’altro e a lasciarmi precipitare giù. Non è colpa loro, lo so, sono io che ero sbagliato, sono io che non sono mai riuscito ad esprimermi ed è giusto sia io ad andarmene e la pace che ne deriva, alla deriva, è così dolce che a sparire ogni rabbia, ogni tristezza, ogni risentimento. Si chiederanno se c’è una causa, se ne addosseranno colpe, diranno che è colpa di Arianna che mi ha lasciato. E sbaglieranno tutti. O avranno tutti ragione. Non importa. Questo non lo capiranno. Non capiranno che non importa. Che quando hai lasciato il bordo della piscina non conta più nulla. Potrei pensare alle cause, forse sforzandomi riuscirei a trovarne anche una più importante delle altre ma è un filo. Un filo continuo, un filo che parte dal giorno in cui sono nato e arriva ad oggi. Sono sempre stato qui nell’acqua. Forse ne sono uscito una volta. Forse davvero ne ero uscito una volta, ma quando ci sei stato serve un motivo per non tornarci. Serve un motivo per rimanerne fuori. Non c’era. Le altre volte sì, le altre volte un motivo lo avevo sempre trovato, era sempre arrivato al momento giusto, all’istante giusto. Quando meno te lo aspetti dicono. A volte invece quando meno te lo aspetti le cose non arrivano. Questa volta non è arrivata. E i miei figli? Staranno meglio senza di me. I mie soldi li hanno non avranno il mio peso. Né ora né quando sarò vecchio, né il peso della mia sofferenza. Se ne faranno una ragione. La natura vuole che i padri muoiano prima dei figli, no?
Non serve ve lo spieghi perché mi sono tolto la vita perché nessuno di voi lo capirebbe, o ognuno capirebbe un piccolo angolo, un piccolo morso infinitesimo di un grande quadro che nessuno sarebbe in grado di comprendere. Come essere in piedi su un gigantesco Pollock e cercare di trovarne un senso vedendone un pezzetto parziale. Ognuno la sua piccola colpa, ognuno la sua grande assoluzione del fatto che in fondo se io fossi stato capace sarei riuscito a spiegarmi. Eppure i segnali ho provato a lanciarli. A lanciarne ancora, ed ancora. Quelli che per loro sembravano capricci, stranezze. La verità è che è stata la solitudine ad uccidermi. Non la solitudine di non avere qualcuno con cui uscire, con cui bere due birre, con cui guardare la partita, con cui parlare di politica e di arte e di quale sia l’hamburger più buono o la soubrette più figa. Qualcuno a cui parlare di cosa mi accadesse dentro. La solitudine di sentirsi diverso da chi mi circonda, la solitudine di non avere nulla da condividere, per cui valga la pena lottare per condividere con gli altri. C’era stata lei un tempo. Per lei avrei rovesciato il mondo, per lei avrei svuotato questa piscina e l’avrei riempita di terra e ci avrei coltivato ortaggi e fiori e non avrei mai più permesso si allagasse, e mi avrebbe aiutato, a farlo ed io avrei aiutato con tutta la mia acqua a far fiorire il suo mondo. Ma sono stato incapace di esprimermi e l’ho perduta. L’ho lasciata andare, arrabbiata con me, perché non sono mai riuscito a dirle ti amo. Penserà “ma se avesse detto…”. Sì. Se avessi detto il mio mondo sarebbe cambiato, e il tuo, e forse sarebbe cambiato il mondo di un sacco di altra gente e tutto sarebbe stato magnificamente qualcos’altro. Ma non l’ho fatto. Non l’hai fatto tu, non lo hanno fatto loro. Ma non l’ho fatto io. Non c’è molto altro da aggiungere. Ma non c’è un evento scatenante, non c’è una colpa specifica, non c’è nulla. Solo la mia mano che ha lasciato il bordo della piscina.
E poi silenzio.
E poi pace.
E poi nulla.
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